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I Giapponesi e la comunicazione efficace

Giappone
Foto di Manuel Cosentino su Unsplash

 

I Giapponesi e la comunicazione efficace

Siamo portati a credere che i giapponesi e la comunicazione efficace siano in stretto rapporto.

E’ proprio cosi?

Quante volte durante i seminari ed eventi formativi cui ho partecipato nel corso della mia vita, ho ricevuto nozioni su come i Giapponesi sanno comunicare meglio noi, sanno organizzarsi meglio di noi, sono educati più di noi, ricevono un’educazione civica migliore della nostra, ecc. ecc.

A parte il particolare dell’educazione civica che non si può negare esser migliore del nostro, il resto va passato bene al setaccio!!!!

Per chi si occupa di qualità in azienda, ne avrà piene le tasche del concetto di Kaizen (改善) che non è altro che una parola composta di due termini: KAI (cambiamento, miglioramento) e ZEN (buono, migliore), e significa cambiare in megliomiglioramento continuo, coniato da Masaaki Imai nel 1986 per descrivere la filosofia di business che supportava i successi dell’industria nipponica negli anni ‘80.

I Giapponesi e la comunicazione efficace

Da loro funziona a meraviglia, da noi un pò meno

In molti hanno provato ad esportare il metodo giapponese della cultura aziendale e in pochi sono riusciti a farlo funzionare, come mai?

Il metodo dovrebbe portare quotidianamente il miglioramento continuo nelle aziende, di grandi e piccole dimensioni. “Perché non conta quanti siano i dipendenti, conta quanto sono coinvolti”. Bellissimi principi, ma se come me, hai modo di vivere quotidianamente con dipendenti di varie piccole e medie imprese (soprattutto con età dai 35 anni in su) puoi constatare che in Italia non è applicabile al 100%.

Ti ricordi  il video di Marchionne sulle ferie in Italia?
Quel video, (che ripropongo qui sotto) vale più di 1000 parole o esempi di come funziona la mente media della maggior parte dei dipendenti italiani.

 

A parte questo, abbiamo qualcosa da imparare dalle aziende giapponesi?

Certamente, ad iniziare dal concetto di armonia e stabilità in azienda, uno dei postulati di base della loro cultura è: In armonia si raggiungono gli obiettivi.

Lo scopo principale della tipica azienda giapponese è sopravvivere nel lungo termine, assicurando il lavoro per tutti i dipendenti.

Sembra un principio che possa valere per tutte le aziende, ma se prendiamo ad esempio la tipica azienda anglosassone, noteremo che è orientata soprattutto al profitto annuale.

I giapponesi ci insegnano che seguire un piano di lungo termine unisce tutti i dipendenti nel raggiungimento degli obiettivi aziendali. E come può riuscirci?

 

Per far questo si servono di una comunicazione eccezionale. 

Gli obiettivi aziendali possono essere molto diversi da un reparto all’altro, creando una sorta di scontro, invece che di collaborazione. Il segreto dell’armonia, nelle aziende giapponesi, si basa sia sull’allineamento degli obiettivi che sul coinvolgimento delle persone.

Perché tutto questo accada, la comunicazione è fondamentale. E i giapponesi sono dei veri maestri di comunicazione efficace.

Partendo dal concetto ‘se il destinatario non lo capisce bene, il mittente non l’ha spiegato bene’, le aziende giapponesi investono molto nella comunicazione. La strategia e gli obiettivi vengono comunicati ripetutamente e ovunque e in modo tale che possano essere capiti e perseguiti da tutti.

Una delle sfide per chi vuole imparare la lingua giapponese è sicuramente il keigo 敬語, il linguaggio che si usa nelle occasioni formali e per mostrare rispetto all’interlocutore. Specialmente per chi vuole lavorare in Giappone o a contatto con business partner giapponesi, avere una buona conoscenza del keigo è fondamentale.

Il concetto di perseguire una comunicazione ottimale vale per tutto, dall’azienda alla vita privata. Ho imparato molto da come un giapponese riesce a cambiare la valenza della comunicazione, in questo campo non credo di esagerare nel dire che ho imparato più dal modo di comunicare dei giapponesi che dai geni della pnl: Bandler e Grinder, perchè nel riuscire a far passare per oro anche ciò che non luccica sono dei veri maestri. Sia nel bene, che nel male!!!!

 

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Giapponesi e comunicazione efficace

fonte: Bodies of ‘comfort women’ raped and killed in WW2, alongside a survivor
(Image: WIKIPEDIA/SEOUL METROPOLITAN GOVERNMENT)

Il semplice passaggio da Prostituta a Santa

Noi occidentali abbiamo dei limiti mentali, non siamo capaci a cambiare con facilità la valenza positiva o negativa di semplici concetti, ti faccio un esempio: trovami una parola a valenza positiva del termine “prostituta”, ma attenzione, trovalo in modo tale che possa andare bene per la storia e gli abitanti del tuo Paese. In pratica, trova un termine che faccia diventare una prostituta una santa.

Difficile? Non per un giapponese. Che ne pensi del termine: “Donna di conforto”?

Donna di conforto è un eufemismo che maschera la violenza inflitta a circa 200.000 donne, per la maggior parte coreane, ma anche cinesi, taiwanesi, filippine, indonesiane e tailandesi, dall’esercito giapponese a partire dal 1932, fino al termine della seconda guerra mondiale. Non tanto di conforto si tratta, ma di vera e propria schiavitù sessuale.

Le Comfort women (donne di conforto) erano donne e ragazze costrette a far parte di corpi di prostitute creati dall’Impero del Giappone.

Le comfort women si sono ritrovate spesso senza la possibilità di ritornare a casa. Molte di loro sono rimaste dove si trovavano, per la maggior parte in Cina, e sono sopravvissute continuando a prostituirsi o, se fortunate, sposando uomini del luogo. Alcune, poche, sono riuscite a tornare, a piedi o con mezzi di fortuna. Altre si sono suicidate per la vergogna.

La locuzione comfort women è una traduzione del termine giapponese ianfu (慰安婦). Ianfu è un eufemismo che sta per shōfu (娼婦) che significa “prostituta/e”. I documenti relativi alla Corea del Sud affermano che non fosse una forza volontaria. Dal 1989 diverse donne si sono fatte avanti, testimoniando che i soldati giapponesi le avevano rapite e poi prostituite. E’ storia, ma il genio giapponese è sempre al lavoro e a tutt’oggi nega che le cose siano andate veramente cosi.

Fate in rapido giro su internet per approfondire questa storia, ne troverete delle “belle”!!!

 

I Giapponesi e la comunicazione efficace

Fonte: Di Originally Moriyasu Murase, 村瀬守保 – Derivative work of a photograph taken by Moriyasu Murase 村瀨守保写真集·私の從軍中国戰線,日本機関紙出版センター,1987年12月20日,46頁,写真139,ISBN 4-88900-218-9, Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=978955

Il semplice passaggio da Massacro ad Incidente

Il massacro di Nanchino, conosciuto anche come stupro di Nanchino, è stato un insieme di crimini di guerra perpetrati dall’esercito giapponese a Nanchino, all’inizio della seconda guerra sino-giapponese. La città, in quel periodo capitale della Repubblica di Cina, era caduta in mano all’Esercito imperiale giapponese il 13 dicembre 1937 e la durata del massacro non è stata definita con sicurezza, anche se si sa che le violenze continuarono almeno per le sei settimane successive, fino all’inizio del febbraio 1938. Noi oggi lo chiamiamo massacro, nei libri di storia giapponesi si parla ancora di “incidente”. Ovvio che il termine incidente è molto più digeribile di massacro. Che genio! Proprio vero, i giapponesi sono maestri di comunicazione efficace.

Durante l’occupazione di Nanchino l’Esercito imperiale giapponese si comportò con tale brutalità che osservatori occidentali dell’alleato tedesco, lo definirono “una macchina bestiale”. In questo caso non vi consiglio di approfondire l’accaduto su internet se avete uno stomaco debole, perchè il materiale è troppo forte emotivamente, foto e video di omicidi, stupri, infanticidi io l’ho sopportato a malapena!!!

L’interesse dell’opinione pubblica riguardo al massacro di Nanchino scemò e si finì per non parlarne più fino al 1972, l’anno in cui si normalizzarono le relazioni diplomatiche tra Cina e Giappone, e per consolidare la ritrovata amicizia con il Giappone, la Cina eliminò ogni riferimento al massacro dai discorsi pubblici e dai media, il dibattito prosegui solo in Giappone dove rimasero comunque vive, sebbene in misura minore, teorie negazioniste promosse da organizzazioni nazionaliste quali il Nippon Kaigi e da discusse figure come ad esempio Shōichi Watanabe.

La discussione sulla reale portata delle uccisioni e degli stupri ha avuto luogo principalmente negli anni settanta. Le dichiarazioni del governo cinese riguardo ai fatti in quell’epoca furono duramente criticate, sostenendo che facessero eccessivo affidamento sulle testimonianze personali e su prove aneddotiche. Furono contestati anche le cifre relative ai registri delle sepolture e le fotografie presentate al processo di Tokyo, definiti menzogne create dal governo cinese, documenti falsificati o comunque erroneamente messi in relazione con il massacro.

 

Il semplice passaggio da Cannibalismo a Prevenzione di onorata sepoltura

Molti rapporti scritti e testimonianze raccolte dalla sezione australiana dei crimini di guerra del tribunale di Tokyo, e indagati dal procuratore William Webb (il futuro giudice in capo), indicano che il personale giapponese in molte parti dell’Asia e del Pacifico compì atti di Cannibalismo contro prigionieri di guerra alleati.

In alcuni casi, la carne veniva tagliata a persone ancora vive: un altro prigioniero di guerra indiano, il Lance naik Hatam Ali (poi un cittadino del Pakistan), presente in Nuova Guinea, dichiarò: “I giapponesi iniziarono a selezionare prigionieri e ogni giorno un prigioniero veniva portato fuori e ucciso e mangiato dai soldati. Ho visto personalmente che questo accadde e circa 100 prigionieri furono mangiati in questo luogo dai giapponesi.

Furono definiti cannibali?
Macché!! Stiamo scherzando?

I giapponesi sono maestri di comunicazione efficace e come tali, non si perdono per cosi poco!!!

Visto che la legge militare e internazionale, non tratta specificatamente il cannibalismo, questi omicidi furono catalogati con il nome: “prevenzione di onorata sepoltura”.

Che dire!!

 

Non fraintendetemi!!

Con questo post non voglio assolutamente sminuire il Giappone o la sua cultura, voglio solo ricordare a chi osanna la cultura di altri Paesi di non esagerare troppo. Ognuno ha le sue gatte da pelare e i suoi scheletri nell’armadio, se diamo uno sguardo a qualche decennio fa, anche noi italiani abbiamo i nostri bei conti da far tornare. Nessuno è perfetto.

Non soffermiamoci su ciò che c’è di negativo, ma su ciò che c’è di positivo. La comunicazione è fatta di empatia e di tecniche, sta a noi usarle bene per migliorare la vita di tutti i giorni.

A presto

Fabio

 

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comunicazione,Credenze,Emozioni
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